Una nuova Relazionalità  della gronda lagunare

Il problema

Questo documento intende fornire alcune riflessioni per una discussione sul ruolo che la gronda (la fascia lagunare compresa tra Fusina e Tessera) può svolgere come cerniera per integrare centro storico e terraferma (per portare Venezia, come dice De Rita, “nella traccia dello sviluppo del Nordest”).

Si tratta di un documento che solo in parte si basa su un’attività di ricerca su fonti documentarie. Esso nasce invece dalle opinioni e dalle idee raccolte in occasione di incontri diretti con alcuni dei maggiori protagonisti dell’area veneziana; in questo documento viene pertanto proposta, più che una sintesi di dati “oggettivi”, una ricostruzione degli scenari possibili delineati attraverso i giudizi espressi dagli attori intervistati.

Assegnare alla gronda un ruolo di cerniera è cosa assai problematica: l’aggregazione di Mestre e dintorni al Comune di Venezia nel 1926 (mera operazione burocratica al servizio di un’idea di grande città intesa soltanto come quantità numerica di territorio e di popolazione) ha condannato le parti aggiunte di terraferma a un ruolo subalterno di “retrobottega” dove Venezia ha confinato, senza neanche una pianificazione coerente, le funzioni “nuove” (produttive, residenziali, ecc.) che nel centro storico non riuscivano a trovare spazio, prima ancora che fisico, “mentale”. Questa tenace estraneità della città lagunare nei confronti della terraferma è il dato persistente della storia di Venezia nel ‘900.

Porsi oggi il problema di assegnare alla gronda un ruolo attivo di snodo esige una capacità di progettare in grande che fin adesso è mancata. Se dovrà funzionare da cerniera, la gronda dovrà allenarsi a lavorare sotto sforzo per le tensioni contrastanti che insorgeranno dal voler raccordare fra loro “spazi di posizione” (come li definiva Bonomi in un recente intervento) lontanissimi:
– da un lato Venezia il cui spazio di posizione coincide col “mondo”, uno spazio idealmente senza confini per l’universalità dei valori (estetici, simbolici, d’immagine, ecc.) che Venezia rappresenta;
– dall’altro il Nordest cui invece è associata un’idea di confine, nonostante la sua forte proiezione verso gli spazi sempre più dilatati dell’Europa orientale e del Nord Europa.

A questi spazi di posizione corrispondono, come ancora notava Bonomi, due ceti economici radicalmente diversi: un ceto produttivo, legato alle regole dell’economia reale, e un ceto legato alla rendita di posizione turistica. Riuscire a fare connessione fra queste due realtà è la vera sfida da affrontare se si vuole ragionare della gronda come cerniera.

L’altezza della sfida si accresce inoltre per contrapposizione a tutto ciò che non è stato fatto in passato. I programmi degli ultimi trenta anni riguardanti infrastrutture ferroviarie, portuali, idrovia, ecc. sono stati tutti concepiti a servizio dei sistemi produttivi dell’entroterra; in realtà la promessa di rendere funzionale Venezia al grande sviluppo dell’economia diffusa non è stata onorata da alcun punto di vista: non da quello finanziario, non da quello infrastrutturale, non da quello logistico, pochissimo dal punto di vista universitario, Venezia sul piano politico non ha mantenuto le promesse di cui era portatrice.
Quanto più lunga è la scia delle cose non fatte e tanto maggiore è la difficoltà per Venezia di tornare a svolgere quella capacità relazionale che aveva in passato e che oggi non ha più.

Il tornare a fare relazionalità è reso oggi ancora più difficile dal fatto che non c’è più (se mai c’è stato) un interlocutore unico: il Nordest non è più un unico modello, è un insieme di sottosistemi che va oltre il Veneto, sicuramente va fino al Friuli, tocca una parte del Trentino e una parte della Lombardia; il Veneto inoltre si diversifica al suo interno, c’è un Veneto del Nordest (il sistema policentrico Padova, Venezia, Treviso e in parte Vicenza) e un Veneto del Nordovest che fa centro su Verona; infine non va dimenticato che il Nordest rappresenta, in parte, anche il decentramento dell’industria mitteleuropea, lavora quindi in contoterzi per un cervello che si situa altrove.

Torniamo alla domanda iniziale: la gronda è suscettibile di diventare il luogo, la cerniera dove Venezia possa tornare a svolgere, in forme innovative, la relazionalità di un tempo, quella che a ben vedere è stata e deve tornare ad essere la sua vocazione più autentica? Dare una risposta a tale quesito ci impone innanzitutto di misurare lo scarto che passa tra:
– la grande eterogeneità di attività e di funzioni che insistono sulla gronda, in essere o programmate, e che danno luogo a flussi di persone e di merci che si sommano e si intersecano senza alcuna consapevolezza reciproca;
– l’assenza di un tavolo di concertazione, di una sede dove fare sintesi e coordinamento fra soggetti e operatori che procedono secondo logiche di segno autoreferenziale, autocentrate su strategie particolaristiche, senza traguardi comuni.

Riguardo all’eterogeneità dei flussi che interessano la gronda, è possibile fornirne un’elencazione schematica: 10 milioni/anno di turisti a Venezia (che, comunque arrivino, fugacemente transitano attraverso la gronda); 93.000 ingressi giornalieri a Venezia (sommando tutti gli arrivi a Piazzale Roma, Tronchetto, S. Lucia); quasi 1 milione di auto in transito nei mesi estivi sulla Statale Triestina (tratto Venezia-Jesolo) in direzione delle spiagge del nord dell’Adriatico; 6 milioni di passeggeri al Marco Polo nell’ultimo anno; 14.000 occupati fra Marghera e Tessera; 2.000 persone fra studenti, docenti, ecc. nelle nuove facoltà di scienze e di informatica di via Torino. Si aggiungano inoltre circa 6.500 miliardi di investimenti programmati in progetti di interventi pubblici e privati, la forte crescita del traffico merci dell’attività portuale, ecc. Questi dati, che misurano tutto ciò che passa sulla gronda, al tempo stesso confermano che essa costituisce un’area di transito per flussi in arrivo e in partenza di notevole consistenza, una sorta di “scatola nera” il cui funzionamento interno resta opaco, in quanto merci, persone, investimenti si spostano ognuno lungo il proprio cammino, ignaro dei percorsi altrui. È fondamentale procedere a riordinare l’insieme di queste traiettorie, creare le premesse per un loro sviluppo coerente e non conflittuale.

Per cominciare a lavorare su questo programma si rende indispensabile sviluppare una riflessione su almeno quattro aspetti.
Il primo riguarda il livello dove si situano i processi di decisione. Non si tratta tanto di individuare livelli istituzionali di decisione amministrativa, quanto di stabilire l’ampiezza dell’orizzonte sociale di volta in volta interessato alle diverse decisioni.

Il secondo aspetto riguarda la capacità di costruire reti corte fra attori che già operano inseriti in reti lunghe. Fare “reti corte” significa la capacità di costruire relazioni efficienti fra attori, che pur proiettati nel mercato globale, condividono e sono interessati a far funzionare meglio una base territoriale comune.

Il terzo aspetto è di tipo prospettivo: è un esercizio di anticipazione dei fattori di minaccia che incombono su determinate attività, dei “colli di bottiglia” che rischiano di strozzare i futuri programmi di sviluppo.
Il quarto aspetto riguarda infine la capacità di fare regolazione, di evitare che in determinati casi il livello delle quantità offerte rischi di tradursi in un surplus di difficile assorbimento da parte del mercato.