Le nuove domande del turismo nell’area veneziana

La “scoperta” del turismo come consumo ordinario

All’inizio degli anni ’80 caratterizzati dall’esplosione della soggettività da un lato e dal consolidamento delle imprese dall’altro, il turismo italiano sembrava essere uscito (una volta per tutte) dalle retoriche dei tour ottocenteschi. Erano le retoriche del piccolo è bello, le retoriche del familiare è bello, le retoriche dell’ospitalità spontanea.

Ogni turista era concepito come un novello Stendhal, o un improbabile Goethe, come ammaliato dalla storia e da quell’impalpabile, eppure così forte, senso della profondità e bontà dell’offerta turistica italiana; qui intesa come l’intreccio tra patrimonio storico-artistico, archeologia, buona cucina, accoglienti alberghi e larghi sorrisi.

Con gli anni ’80 l’Italia scopre la società dell’abbondanza; scopre d’essere diventato un paese ricco: il turismo non è più un lusso: viene trattato oramai alla stregua di altri bisogni. E comincia a cambiare.

Andare in vacanza non è più, di per sé, un tratto distintivo. Bisogna segmentarsi, come dicono gli esperti di mercato. La stessa offerta turistica comincia a uscire dall’indistinto per prendere le forme, e i confini, dei prodotti turistici. Si capisce che anche il viaggio è qualcosa che sta tutto dentro alla struttura dei consunti e a quella economica. Alla retorica si sostituisce il mercato.

Ma qual è stato l’elemento trainante degli anni ’80? Proprio la scomposizione della domanda, non solo all’interno del turismo di svago, con l’affermarsi delle vacanze invernali e poi dei week-end e altro ancora, ma pure con lo svilupparsi di segmenti nuovi come il turismo congressuale e quello fieristico, oltre che per l’incremento dei viaggi d’affari e in generale della mobilità.

Non più il turismo, unico e uniforme fenomeno, ma i turismi: cioè la pluralità delle domande: gli anni della soggettività non potevano lasciare proprio Il turismo al di fuori del processo che ha caratterizzato il decennio.

Si aprono, gli anni ’90, con ormai tutta dispiegata la carica innovativo dell’esplosione della domanda. Non solo ci sono più tipi di turisti, ma la parola stessa sembra essere tutto d’improvviso invecchiata. In fondo ci si era abituati a uno schema troppo facile con due livelli di esperienze quasi contrapposte tra loro: da un lato Il lavoro dall’altro le vacanze, identificate proprio come “vacatio”, cioè assenza, vuoto.

I periodi di vacanza, anzi ferie, che erano legate proprio al momento lavorativo, si identificavano in questa sospensione del tempo; sospensione a tratti velleitaria, quasi ottusamente positivista. All’estraneazione di un periodo lungo di vacanza (di regola un mese) con i suoi inevitabili contraccolpi dei “ritorni” si è andata sostituendo la tecnica della abbreviazione e moltiplicazione dei periodi di estraniazioni: più prossimi alla “regolarità” della vita ordinaria, ma forse più puntuali a rispondere alle esigenze di una società che non permette più le lunghe sospensioni di un tempo.

Il turismo si è come integrato dentro la regolarità dei bisogni, pur mantenendo la sua carica trasgressiva, anzi talvolta proprio accentuandola. Ma non è contrapposto quasi idillicamente alla società “ordinaria”. Ed ecco che il termine “turista”, si diceva prima, sembra invecchiato: sembra appartenere a un mondo che non c’è più: si continua ad usarlo perché non ve ne è un altro, ma Il suo contenuto è mutato profondamente.

Si viaggia, anche quando lo si fa “per svago”, per una molteplicità di motivazioni, e solo raramente queste possono essere inscritte dentro il senso vacuo (dell’assenza) cui il turismo tradizionale farebbe pensare. Si viaggia non solo per “svagarsi”, ma pure per acquisire informazioni e conoscenze utili sul piano lavorativo come su quello personale.

Si riscoprono così i “viaggi politici” (andare a vedere quel che succede dove si realizzano le cose più interessanti); o il “wellness” (le vacanze dello star bene, finalizzate a migliorare la propria forma fisica in un ambiente naturale accogliente e di qualità); i “brainy tours”, viaggi finalizzati alla conoscenza, allo studio o alla realizzazioni di particolari programmi culturali. Oppure si scoprono i week-end trasgressivi (come quelli riminesi), veri concentrati di estraniazione quanto breve tanto intensa.

Ma anche relax, divertimento sono parole che hanno perduto una unitarietà di significato: ognuno si rilassa o si diverte a modo suo. Il punto è che negli anni ’90 nessuno vuole essere “segmentato”; ciascuno vuole la “sua” vacanza personale, anzi personalissima, unica se potesse. Nessuno vuole essere paragonato agli altri (nel senso di essere messo alla pari): Il bisogno di riconoscimento supera ogni altra necessità.

I gradini sembrano essere stati percorsi tutti: dall’uniformità alla segmentazione, e da questa alla distinzione totale. Tanto che, paradossalmente, comincia ad affermarsi un nuovo prodotto che, pur essendo inscritto nel “leisure” (cioè nel tempo libero piacevolmente speso), è la negazione radicale del turismo: il “cocooning”, lo stare in casa (o meglio in giardino) a vezzeggiarsi, lontano dalle code, dagli “arrembaggi” ai mezzi di trasporto: lontano, ancora una volta, dalla dimensione di massa dei fenomeni.

Il cocooning è la negazione intrinseca del turismo, proprio nell’affermare che i viaggi possono essere molto personali, avventurosi, piacevoli senza spostarsi da casa: al viaggio esteriore si sostituisce Il viaggio interiore. D’altro canto cosa c’è di più personale (e unico) della propria casa?