Venezia Altrove: Almanacco della presenza veneziana nel mondo (1 – 2011)

Fin dall’inizio dell’avventura di Venezia Altrove, quando mi accingo all’esercizio di prefatore, resto da anni letteralmente sommerso e sconvolto da quel pozzo senza fondo che per secoli è stata la produzione culturale veneziana, e dall’intrigo senza bandolo che è stato per secoli lo scambio commerciale su di essa esercitata.

I nostri lettori, ormai tutti sul web e certamente con qualche nostalgia della carta patinata e delle fotografie del passato, conoscono bene l’eccezionalità un po’ mostruosa della citata produzione e del citato scambio commerciale; ma son convinto che, anno per anno, in loro “si rigenera l’attesa”: la voglia cioè di tornare a meravigliarsi della potenza veneziana nei due campi citati. Una potenza di cui in dieci anni abbiamo scandagliato le tracce in ogni grande capitale europea, russa, americana; e che questa volta siamo andati a verificare a Londra ed in Inghilterra, ritrovando ulteriori prove di quanto sia significativo, in quantità e in qualità, l’altrove veneziano sedimentato nelle isole britanniche.

Per la qualità, basta leggersi, con Rosella Lauber, le avventurose imprese del Residente britannico Strange e del suo sodale Sasso (il “mercante degli inglesi”) negli ultimi decenni del 1700, per constatare quante eccelse opere d’arte siano transitate per le mani di quei due e poi per le abitazioni e le case britanniche (ben 245 lotti di opere messe all’incanto a Londra il 10 dicembre 1789!). E si tratta soltanto di un tassello del grande mosaico di acquisti, collezioni, vendite, esportazioni venutesi a creare in tutto il Settecento. Ma la sorpresa è anche nella più banale quantità degli oggetti comuni arrivati in Inghilterra fino a cento anni fa: l’attenzione del mercato inglese per tutto quel che sapeva di veneziano è rimasta vivissima anche scadendo nel livello di qualità. C’è da restare stupiti, leggendo l’avvio del saggio di Isabella Cecchini, di quanta “roba” sia partita da Venezia per Londra in appena due mesi, cioè in settembre ed ottobre del 1926; o quanti ogni anno, nel 1898 e nel 1922, due anni scelti a caso; siamo lontani dalla sublime qualità del passato; magari una parte di quegli oggetti era «di grossolana imitazione o di lavoro ordinario” : ma il loro volume e la loro varietà stanno a ricordare che molti inglesi, anche in pieno Novecento, volevano avere in casa un pezzetto di Venezia. Per alcuni, a ricordo di un viaggio; per altri, a borghese consonanza con un mito.

Guido Beltramini s’incarica di mostrarci come ad un certo punto, perfino Palladio sia diventato quasi più britannico, che non veneto; e Sandro Cappelletto, che per soddisfare certi desideri, s’intende artistici, la Serenissima era il luogo indubbiamente migliore e più idoneo al quale guardare. Ne escono non soltanto informazioni, ma curiosità a bizzeffe. Basta leggere i due testi di Fabio Isman, prodighi di viaggiatori, artisti, epopee, imprese, perfino di “007” ante litteram e di rotte avventuristiche.

C’è da domandarsi perché Venezia e l’Inghilterra abbiano avuto per tre-quattro secoli una tale affinità elettiva a vari livelli.

Non basta, come spiegazione, che nel periodo storico in cui tale affinità nacque, Venezia e l’Inghilterra fossero le due più grandi potenze marinare, una connessa con il vasto mondo dell’Oriente, l’altra invece tutta baldanzosamente atlantica. Le ragioni della affinità elettiva devono essere più profonde; e si possono ricavare anche dalla lettura dei saggi che seguono. Tenterò, da semplice lettore, di metterne in evidenza alcune, con qualche pudore e molta umiltà.

La prima mi sembra essere il rapporto con l’acqua: più con la sua regolazione minuta in adesione al territorio, che con il dominio degli oceani.

Chi conosce l’amore con cui i britannici valorizzano l’acqua (nei ruscelli che attraversano i prati dei loro castelli, nei fiumi che connotano le città, e anche nei porti dell’antica potenza), può capire con quale meraviglia ed ammirazione essi abbiano percorso i rii e i bacini di Venezia.

Nell’acqua regolata c’è più cultura e soddisfazione, che sull’acqua ribelle degli oceani; c’è più capacità di pensare e costruire un insediamento; c’è più cura del particolare; c’è più valorizzazione della quotidianità. Queste cose non saranno mai state al centro di convegni e volumi di confronto fra veneziani e britannici; ma devono aver contato nella reciproca loro attrattiva.

La seconda ragione di affinità sta probabilmente nel gusto del paesaggio, riproposto se possibile anche in dipinti e stampe.

Non a caso l’artista inglese più apprezzato in Italia è Turner, come apprezzati e comprati a caro prezzo degli inglesi furono Canaletto e Guardi ( «sapevano copiare” , cioè avevano genio fotografico).

Ed in effetti, l’attrazione particolare dei grandi collezionisti britannici per gli scorci paesaggistici dei due autori citati è nel tempo diventata più intensa di quella riservata ai maestosi quadri storici e mitologici, ai grandi capolavori; e non sarebbe comprensibile la curiosità inglese per Palladio, se non la sapessimo alimentata dalla capacità – appunto palladiana – di progettare anche edifici vicini al paesaggio circostante, oltre che edifici monumentali.

Naturalmente, non possono bastare queste due ragioni per spiegare l’affinità elettiva fra Venezia e gli inglesi.

Leggendo i saggi che seguono, altre due se ne aggiungono, anche se di diversa consistenza e di opposto valore. Da una parte, avanzo l’ipotesi che due mondi così lontani fossero tendenzialmente convergenti nella concezione della governance pubblica, con una virtuosa e graduata compresenza dei poteri del monarca (doge, o re), dei poteri dell’oligarchia, dei poteri democratici. Una ipotesi forse un po’ “tirata”, ma che può far capire come, per secoli, veneziani ed inglesi si siano sentiti entrambi orgogliosi di avere un equilibrato assetto del potere pubblico, quasi dei precursori dei processi oggi in atto un po’ in tutto il mondo.

E dall’altra parte, per rendere più leggero il ragionamento, avanzo l’ipotesi che nell’immaginario inglese, Venezia fosse un luogo di piaceri: teatranti, spie, e specialmente dame. Penso a quanto facilmente possa esser nata la voglia di andare a vedere in loco se corrispondesse a realtà quanto scriveva Byron sulle sue tante conquiste nel proprio scannatoio: «Alcune contesse, alcune figlie di ciabattini, alcune nobili, alcune borghesi, alcune di basso ceto, alcune splendide, alcune discrete, altre di poco conto, tutte puttane” . Non saranno attrattive elettive; certo, comunque, sono attrattive pesanti.

La reciproca attrazione che ha contraddistinto i rapporti fra Venezia e l’Inghilterra è passata quindi per percorsi e campi più antropologici che di alta cultura e di grande arte. È una interpretazione che potrà non convincere tutti, e spiacere a molti; ma ha il pregio di documentare il fatto che una vicinanza così stretta, come quella fra l’Inghilterra e Venezia, non avrebbe avuto vita plurisecolare se non fosse stata incardinata, più o meno coscientemente, su scelte di segreta psicologia collettiva. Sulle vette si gode molto; ma non ci si vive tanto a lungo quanto è prosperata quella vicinanza.