Volume: Venezia la fabbrica della cultura

Cinque “vocazioni mancate”. City, campus, turismo, capitale di cultura, città viva

Che cosa è oggi Venezia, intesa come il suo Centro storico, la sua parte più “nobile”, la porzione della città costruita nei tempi antichi sulle isole, e quindi sul mare? Poco più che un paesotto; per giunta, anche assai scomodo da percorrere e alquanto umido da vivere, dove tutto costa inevitabilmente più caro. Un borgo abitato da nemmeno 70 mila anime, con una percentuale di anziani assai più elevata che non altrove. Una piccola città, popolata pressappoco quanto lo è Grosseto, o quanto Trapani: meno ad esempio di Pavia, di Piacenza, o di Cosenza (ma anche di Treviso); soltanto poco più che non Cuneo, Lodi, Lecco (e Rovigo); all’incirca la metà di Monza, Siracusa e Pescara; un terzo di Padova e, grosso modo, un quarto di Verona. Che, come tale, non avrebbe quindi diritto a nessun teatro degno di questo nome: ma, tutt’al più, soltanto ad una sala visitata, di quando in quando, da qualche “compagnia di giro”, durante le proprie tournées; che di locali cinematografici può riuscire a mantenerne al massimo un paio, e nemmeno di prim’ordine; magari, questo sì, provvista di un’università e perfino di un conservatorio: perché in Italia questi e quelle certamente non scarseggiano, anzi spesso abbondano; e poco importa se poi – così sovente – sfornano soprattutto giovani disoccupati di lungo periodo.
O invece no.

Che cosa è Venezia, oggi? È quanto ancora ci rimane di una città nobilissima, che, durante parecchi secoli, fu tra le più importanti al mondo, e perfino nei campi più disparati (anche se, non di rado, in qualche modo, gli uni connessi agli altri: la grande stagione del dipingere, ad esempio, non sarebbe mai potuta esistere senza una committenza assai ricca, fondata su un forte potere economico e politico): dalla marineria, ai commerci, allo stesso sistema istituzionale; dalla pittura, alla musica, alle arti, e, in genere, alla cultura. Tanto da stupire l’astronomo francese Joseph Jérôme Le Français de Lalande (1732-1807), poiché i libri vi si vendevano «come le noci»: «La città più libera d’Europa», per ricordare quanto Charles de Brosses scriveva nel 1740; quella che, notava Fernand Braudel, dalla seconda metà del Tre a tutto il Quattrocento è stata ciò che poi, a turno, sarebbero diventate – per citarne soltanto alcune – Anversa, Londra e New York.

E quindi, anche se le sale cinematografiche magari languono, può invece vantare chiese e palazzi, squarci di storia e di cultura, panorami urbani e scorci sentimentali; elargisce ricordi antichi e offre perfino non pochi suggerimenti e spunti attuali, oltre a quell’unicum di essere costruita sull’acqua che, da sempre, calamita comunque il mondo intero. Insomma, «tot capita, tot Venetiae», come celiava (ma non troppo) Diego Valeri: ognuno, di questa città, può vedere il profilo, il dettaglio e perfino l’assieme che più gli aggradano; ciascuno può avere in mente, e magari anche serbare nel cuore, una Venezia diversa, che è la sua. Ma certo, con alcuni dettagli di fondo comuni; che sono, comunque, quelli del decadimento urbano; di un agglomerato cittadino che stenta a vivere per davvero; di un luogo che c’era, ed invece è ormai costretto appena a (malamente e stentatamente) campare.

Forse, è abbastanza semplice sapere, capire, “leggere” oggi quel che Venezia non è, non è stata, non è riuscita, o non le è stato permesso di diventare, da quando ha smesso di essere una capitale. Ma infinitamente più difficile è invece immaginare, delineare, ipotizzare quale futuro la Serenissima potrebbe ancora avere: quali delle sue “vocazioni”, cioè, sono suscettibili di sviluppi positivi e di essere realizzate; secondo quali percorsi ed itinerari potrebbe evolversi e migliorare la sua condizione attuale; come creare le premesse e gettare le fondamenta perché, se non proprio prosperare e (davvero impossibile) ritornare alla gloria antica, la città possa almeno sperare in un (suo) mondo migliore; sopravvivere in maniera più degna e decorosa che non ora; offrire speranze e futuro a chi la abita; magari, anche attrarre nuovi residenti, anziché continuare, incessantemente, a perderne.

La speculazione è assai più complessa di una semplice radiografia; e la “progettazione di un futuro” per Venezia è un esercizio così improbo e controverso, che, almeno da alcuni decenni e un po’ in tutto il mondo, vi si esercitano parecchie tra le cosiddette menti migliori e tra i più accreditati maîtres à penser. Eppure, qualcosa, forse, si deve poter cambiare: una città non può certamente nutrirsi soltanto ed unicamente del proprio passato, per quanto illustre esso sia; e, per converso, spesso non basta un passato, nemmeno il più preclaro, ad assicurarle un avvenire, che non sia quello del museo. Del luogo cioè da visitare ed ammirare; ma dove abitare riesce davvero troppo arduo, complicato, difficile, insoddisfacente.

E allora, vediamo: l’ex Dominante non è, purtroppo, nemmeno il centro decisionale della Regione di cui fa parte; e di cui, magari soltanto nominalmente, è anzi il capoluogo. Non è riuscita neppure a diventare un campus universitario: un luogo, cioè, i cui atenei attirino da fuori studenti residenziali, che stabilmente vengono a viverci; e questo, anche se la popolazione universitaria ammonta a ben trentamila unità (quasi la metà dell’intero centro storico), di cui tremila, circa un quinto dei residenti, «vengono da fuori: non sono veneziani, ma abitano a Venezia». Non è un luogo votato al turismo, cioè “costruito” (o adattato) per ottimizzare e sfruttare al meglio questa rilevante risorsa economica. E non è più, da tempo, nemmeno una capitale di cultura, intesa come centro di elaborazione e di creazione delle novità. La città che «ha inventato l’imposta sul reddito, la statistica, i titoli di Stato, la censura dei libri, la lotteria, il ghetto, gli specchi di vetro», la cui pittura è «la più affermativa e libera e gaudiosa che il mondo conosca», o, come diceva Bernard Berenson, «l’espressione più completa del Rinascimento italiano: di quell’età di giovinezza pura che s’impadronisce della vita intera come d’una materia plastica», la città della grande musica barocca italiana (ma anche di tante “prime” d’importanti opere liriche: da Rossini a Verdi, fino a Stravinskij), oggi, quando proprio le va bene, si ritrova al centro del mondo soltanto per un paio di settimane all’anno: in occasione del Festival del cinema, o delle Biennali d’arte.

Oppure, tanto è ritenuta in ogni dove preziosa, unica e irripetibile, torna ad essere “famosa” (a parte l’inconscio collettivo: perché ciascuno di noi ne conserva un’immagine; e chi non la possiede ancora, certo ne nutre almeno l’aspirazione) ogni volta che l’acqua della laguna cresce più del solito e la invade: un metro in più sul medio mare, ne allaga l’11,7 per cento; un metro e trenta, e siamo già al 90,2 per cento. Anche perché quella di Venezia per la propria sopravvivenza è una lotta antichissima: la città, racconta Ugo Martegani citando il diplomatico e scrittore francese Paul Morand (1888-1976), «non ha opposto resistenza ad Attila, a Bonaparte, agli Asburgo, ad Eisenhower, perché ha avuto di meglio da fare: sopravvivere. Quelli ritennero di costruire sulla roccia; Venezia ha scelto la parte dei poeti, e ha costruito sull’acqua. A dispetto della statica, a dispetto della logica, sta su».

Eppure, la terribile e indimenticabile notte tra il 3 e il 4 novembre 1966, «il giorno della Vittoria e delle alluvioni [in cui] Venezia è come se avesse subito un infarto», parecchi temettero che potesse riuscirne sopraffatta, e grande fu, in tutto il mondo, la paura. Moltissimi si mobilitarono, e «l’allarme ha mosso il governo italiano a intraprendere la strada del più grande intervento pubblico mai compiuto […]. Ma, come spesso accade in Italia, non è stato fatto niente. O quasi. Ai grandi proclami non sono seguiti i fatti. Per trent’anni, trenta lunghi anni, Venezia è rimasta prigioniera di sterili dispute tra fazioni contrapposte» e intanto, si calcola che il fenomeno dell’“acqua alta” costi alla città qualcosa come 260 mila ore di lavoro perdute ogni anno. Il problema è ancora tutt’altro che risolto, se «all’inizio del secolo, piazza San Marco finiva sott’acqua sette volte all’anno; nel 1989, il fenomeno si è ripetuto quaranta volte, nel 1996 quasi cento»; se «negli Anni Venti, l’onda di marea arrivava a Marghera in un’ora e mezzo, e oggi ci mette mezz’ora, come fosse in autostrada»; se qualcuno prefigura scenari da tregenda: «Tra quaranta o cinquant’anni, l’acqua alta sarà quasi quotidiana: senza interventi, la città è destinata a sparire».