Volume: Una mutua per il Nord-est

Le ragioni di questo colloquio, che come molti sanno rien­tra negli incontri mensili che l’Associazione Venezia 2000 organizza intorno ai problemi di Venezia e del Nordest, possono sembrare un po’ più stravaganti rispetto al solito, rispetto a quando cioè si parla dello sviluppo del Lido, del futuro della realtà turistica di Venezia o dei problemi del sistema museale. Chi ci ha seguito in questi anni sa che siamo particolarmente attenti ai problemi più tipici di questa città. Questa volta però desideriamo ragionare su un tema atipico e abbastanza provocatorio, che è quello di una ipotetica mutua per il Nordest.

Perché lo facciamo? Esiste una ragione per cui Venezia e tutto il Nordest devono riflettere su se stessi: capire se questa realtà così ricca abbia non soltanto la «ricchezza progressiva dell’economia», ma anche un’idea di se stessa da proporre per il futuro. Si dice che i veneti abbiano una grande vitalità, una grande forza di spinta, una grande capacità di accumulare ricchezza e allo stesso tempo una scarsissima autorappresentazione di sé. Per capire cos’è oggi il Nordest, bisogna spesso coglierlo dall’esterno, piuttosto che cercare di interpretarlo dall’interno. Proprio perché la autorappresentazione e l’idea di che cosa si è non viene tanto da quello che si è fatto in termini di arricchimento o di sviluppo economico, quanto piuttosto dall’interpretazione che tutti danno della società nel suo complesso.

Si dice anche che i veneti, pur essendo stati i primi leghisti d’Italia (perché la Lega nasceva qui), alla fine si sono trovati in difficoltà e in «sudditanza» rispetto a Bossi, perché Bossi, per quanto uomo stravagante, ha un’idea di autodefinizione e di autorappresentazione di sé molto forte. Parlare di Padania significa autorappresentarsi una certa realtà, così come fare i «riti delle ampolle» o delle secessioni significa avere un’idea di se stessi, un’idea della società che pensa se stessa per il proprio futuro. Il Nordest questo non l’ha. Non solo perché esiste un problema economico insieme a un problema politico, ma anche perché si pone un problema sociale.

Il Triveneto vive sostanzialmente di una coesione sociale antica, che non si è persa in questi anni di grande sviluppo ed è rimasta agganciata a due valori: il valore del «fai-da-te individuale» del singolo artigiano, del piccolo imprenditore, cioè della molecola isolata, e il valore del policentrismo. Queste due cose, che sono state elementi fortissimi nella storia del Triveneto e del Nordest, oggi rappresentano però anche i suoi elementi di debolezza. Il fai-da-te non basta più, quando si è la più ricca regione europea, insieme alla Baviera. Occorre avere una rete di infrastrutture, una rete bancaria, una rete finanziaria, una rete di università e di ricerca, occorre possedere qualche cosa in più. Così come il policentrismo non basta più e diventa addirittura fattore di tensione interna, di rabbia interna, in cui a un certo punto anche le vicinanze diventano dialettiche e nervose. Basti pensare alle fiere, nelle quali si manifesta il policentrismo di Vicenza, Verona e Treviso e tuttavia sappiamo quante difficoltà esistono nel far collaborare insieme queste realtà, onde evitare certi «meccanismi limite» del policentrismo veneto, come la dinamica del sospetto-rabbia fra regioni quali il Friuli e la Venezia Giulia, in cui i friulani sentono di essere sacrificati dai giuliani, oppure viceversa.

Quindi, il problema fondamentale del Nordest oggi è quello di capire dove si trovi la base della coesione sociale che è stata l’elemento essenziale degli anni passati: paese compatto, paese ex-povero, paese che ha corso tutto insieme, ma che oggi ripropone il problema della coesione sociale. In una società per altro che molto spesso ha «testa e corpo fuori», perché le aziende producono in Slovenia, in Ungheria, commercializzano in Germania, fanno finanza a Dublino e a Londra e la società coesa diventa sempre meno consistente.
Il problema del welfare risulta allora per il Nordest un problema centrale. Perché non si può pensare di essere così ricchi e poi non avere un’idea di se stessi fra vent’anni, o di se stessi e dei propri bisogni. Spesso si dice: «poi alla pensione ci pensa lo Stato italiano», oppure, «ai miei problemi sanitari ci pensa il servizio sanitario nazionale». E ciò può diventare una schizofrenia che porta, magari fra un anno o fra cinque giorni, a dire: «va tutto male, lo Stato non ci dà nulla se non ci si responsabilizza». E allora tutto questo insieme di cose deve imporre, non solo ai grandi protagonisti della vita di Venezia e del Nordest (penso ad esempio alle Assicurazioni Generali, al sindaco, all’assessore) ma a tutti i cittadini, un’importante riflessione: cos’è la società triveneta, la società del Nordest? È soltanto un insieme di molecole economiche vitali, oppure si può avere ancora una coesione sociale? E proprio per via della coesione sociale, che non è fatta solo di valori ma anche di comportamenti e di tessuto sociale sempre più forte, credo che il problema del welfare sia di importanza fondamentale.

Del resto se oggi dovessimo pensare a un decentramento della cultura del welfare – decentramento della sanità, decentramento delle pensioni, decentramento dell’assistenza – probabilmente è soltanto con il Nordest che potremmo fare i conti. Solo il Nordest ha dentro di sé una ricchezza tale da poter sperimentare un modello nuovo. Non è possibile fare un nuovo welfare nel Mezzogiorno. Soltanto là dove c’è una reale capacità di spesa, di responsabilizzazione, di ipotesi di crescita, si può parlare di nuovo welfare. E ciò diventa essenziale per il Nordest, in quanto esso rappresenta la sfida e il campo elettivo in cui questo tipo di innovazione si può sviluppare, magari in via sperimentale, come simulazione o come esplorazione. Non è detto quindi che possa partire domani la mutua del Nordest, ma una riflessione va fatta. Soprattutto perché quello che si legge in questi giorni sui giornali dà l’idea che in fondo sui problemi del welfare e sui problemi di decentralizzazione del welfare si sappia sempre meno e ci siano poche idee in merito.
Pensiamo per esempio all’argomento delle pensioni e all’altro grande argomento del federalismo. Che si fa con le pensioni? Le pensioni cosa sono? Sono un argomento di realtà territoriale, di realtà sociale o stanno diventando qualcosa di diverso? Il fatto che per quattro anni le pensioni abbiano rappresentato il problema sul quale si è esercitata la forza sociale del sindacato e che nello spazio di venti giorni, poi, firmando un accordo di patto del lavoro, i sindacati si siano autoesclusi da qualsiasi rapporto dialettico sulla finanziaria e sulle pensioni, significa che quel problema è essenziale per i protagonisti del sociale, è essenziale per il sindacato come per la Confartigianato, al punto di diventare un problema ideologico, politico, dialettico.

La lotta parlamentare significa che in fondo, implicitamente, il problema delle pensioni slitta in alto, non va verso la periferia. Slitta non soltanto verso Roma, la cultura romana e la spesa dello Stato, ma slitta addirittura nella politica che gestisce lo Stato. E questo è un problema che va totalmente in tendenza rispetto al testo della Collicelli. Certo, va in controtendenza rispetto alla cultura della gente, perché questa per il 70% sostiene che alle pensioni ci debba pensare lo Stato e non la periferia. Sapendo però com’è ridotto oggi il rapporto possibile fra contribuzione e redistribuzione in tema di pensioni, qualche cosa di nuovo occorre fare. Ora, invece di redistribuire il mostro pensionistico su tante sfere di responsabilità, si tende al contrario a riverticalizzarlo non solo come una trattativa fra sindacato e governo, ma addirittura come una trattativa fra Prodi e Bertinotti. Peggio di così non si potrebbe andare in termini di redistribuzione delle responsabilità. Dunque risulta molto importante affrontare il problema con grande libertà, perché non si deve decidere domani cosa fare, ma piuttosto simulare una riflessione su cosa significa periferizzare il sistema pensionistico.
Introduzione Giuseppe De Rita

Pensiamo poi all’altra tematica, quella del federalismo. Ci riempiamo la bocca di federalismo, di regionalismo forte, di decentramento. Ma cosa significa oggi decentrare per esempio il sociale? Cacciari ha detto che questa manovra penalizza il welfare dei comuni, il welfare delle periferie, e ciò significa che in fondo province, regioni e comuni si sentono tagliati fuori dalla capacità di fare welfare. Ma si sentono esclusi soltanto dalla responsabilità della finanziaria di tagliare 4.000 o 5.000 miliardi di trasferimento agli enti locali o si sentono anche esclusi dal modo di pensare oggi il decentramento? Se pensiamo al decentramento, secondo le logiche che erano proprie del decreto 616, prima ancora della creazione delle regioni, puntiamo a periferizzare la responsabilità sociale in un modo assurdo.

Non avendo una politica sanitaria, o pensionistica, o assistenziale, crediamo di fare meglio a delegare la non-politica sanitaria a 20 assessori regionali alla sanità, a 103 assessori provinciali alla sanità e a 8.200 assessori comunali alla sanità. All’interno della logica della cultura del decentramento e dell’affidamento alle regioni, alle province e ai comuni delle responsabilità, non si capisce che la responsabilità da trasmettere non è una responsabilità da democrazia rappresentativa, in cui un Parlamento eletto dal popolo la trasferisce a una regione eletta dal popolo, che la trasferisce a una provincia eletta dal popolo, che la trasferisce a un comune eletto dal popolo. Ad esempio in campo sanitario, il problema di trasferimento è di tipo funzionale, non di tipo democratico-rappresentativo, in quanto le responsabilità sono delle Asl, cioè delle Aziende sanitarie locali, così come la responsabilità di una politica commerciale è delle fiere, e la responsabilità della logistica è degli interporti. Non è pensabile in sostanza avere oggi una politica del decentramento tutta legata al fatto che il decentramento dello Stato coinvolga altre realtà che hanno lo stesso tipo di caratteristiche, e che non sono funzionali ma rappresentative.

Esplorare una mutua del Nordest, ossia una mutua per la zona più ricca e vitale d’Italia, è dunque un tipo di esplorazione che non ha soltanto il significato di un’esercitazione. È anche un modo di andare ad affrontare temi caldi in termini macro-sociali, e argomenti che comunque non fra uno o due anni (perché continueremo a fare manovre e manovrine), ma fra cinque o dieci anni rappresenteranno i temi di trasformazione strutturale del nostro welfare.

Le riflessioni qui raccolte sono centrate sulla relazione di Carla Collicelli, e riportano i contributi offerti al convegno di Venezia 2000 del 18 settembre 1996 da parte di alcuni esperti. Tre di loro riflettono abitualmente in termini culturali su questi argomenti, e sono Edwin Morley Fletcher, Renato Brunetta e Giuliano Cazzola, che (con il Censis e con il Cnel) molto hanno lavorato su questi argomenti. Altri sono i protagonisti potenziali: un soggetto di responsabilità tradizionale, nella figura dell’assessore di Padova Maurizio Previati, e un soggetto della cultura locale trentina, nella figura di Egidio Formisan. Infine compaiono gli interventi di due grandi protagonisti di questa vicenda, cioè le assicurazioni private, nella persona di Armando Zimolo delle Assicurazioni Generali, e le assicurazioni pubbliche, nella persona di Gianni Billia, presidente dell’Inps.