Volume: una città  speciale – rapporto su Venezia

Le radici storiche e sociali di una autoreferenza vera e immaginata

Anche per il cosmopolitismo che attraversa tutta la sua storia, facendone lo snodo di molte altre storie, come per il primato del mare e delle navi, cioè della gestione delle comunicazioni e dei flussi piuttosto che della proprietà di un territorio e della sicurezza dei confini, Venezia è sempre stata una città speciale, che sulle palafitte della sua specialità ha fondato non soltanto la sua architettura, ma lo stesso diritto ad esistere nella sua peculiare identità culturale e sociale.
Si dice per questo che Venezia sia città eminentemente autoreferenziale, che dell’autoreferenzialità ha fatto strumento chiave di crescita e di successo attraverso i secoli.

Tale constatazione appare indiscutibile per il passato. Ma non per il presente.
Sfibrata dalla perdita di abitanti, che continuano ad abbandonarla al ritmo di duemila all’anno, e dall’invecchiamento della popolazione residente, ormai per oltre la metà composta di persone con più di cinquant’anni, marginalizzata dalla vitalità dello sviluppo policentrico che già da tempo sta rimodellando il Nord-Est italiano in questa fase inoltrata della transizione post-industriale, Venezia resta certamente speciale ed unica perle sue pietre, dalla cui custodia ricava attraverso il turismo le risorse perla sopravvivenza, misurata dal reddito pro-capite più basso tra quelli dei capoluoghi del Veneto. Ma speciale ed unica non è più nel ruolo che svolte, avendo interamente perduto la funzione di polo, opportunità e motore di relazioni tra altri soggetti.

Guardando alle prospettive attuali del rinnovamento, se c’è facoltà di aggiungere qualcosa al fiume di parole già pronunciate e scritte sui casi della città, si fa strada allora l’ipotesi di riconoscere il malessere più profondo di Venezia, quello che né fa temere un declino senza speranza di ritorno, a una scala più generale dei pur drammatici problemi socioeconomici, ambientali, di restauro e valorizzazione del patrimonio culturale e di regolazione del turismo. Forse la questione di fondo, da cui muovono tutte le altre, è piuttosto in questo dimezzamento dell’identità, e propriamente in una crisi dell’autoreferenzialità, intesa come il carattere tipico di un sistema che al proprio interno ha matrici talmente forti, e tra loro complementari, da esserne indotto a definire da sé sia ì propri obiettivi che le strategie per conseguirli. Di una crisi, quindi, del fattore più specifico che in passato ha consentito alla città di trarre vantaggi, e non handicap, dalla sua diversità.

La situazione è complicata dal fatto che autoreferenziale Venezia continua invece fortemente a sentirsi. Lo prova, nell’appassionato anche se talvolta ripetitivo dibattito di questi anni intorno ai destini della città, la ricorrenza delle ostilità manifestate nei confronti dei progetti di intervento maturati all’esterno delle forze locali, il che si può facilmente comprendere; ma anche di ogni prospettiva comunque volta a cambiamenti sostanziali di senso e di funzioni, il che si comprende con maggior fatica data la gravità del declino in atto.

Si è così tentati di scorgere la sussistenza di un equivoco, il cui scioglimento potrebbe cambiare in qualche misura, se mai è possibile, il discorso sul futuro.
Forse Venezia continua a credersi autoreferenziale per via di uno scambio di intendimenti, un’illusione, in cui l’autoreferenzialità vera è dilatata fino a sfuggire la verifica della realtà e a divenire falsa, immaginata.

Vera, dimostrabile, irreversibile, è l’autoreferenza della storia e della natura: l’eccezionalità e l’irripetibilità della città fondata sull’acqua, senza mura, che ha saputo riconnettere il Mediterraneo all’Occidente, aprire le vie dell’Oriente, riconoscere la ricerca e la scienza come risorse essenziali dell’innovazione, e la politica come diplomazia della tessitura di relazioni, prima che come mezzo di accumulazione del potere.

La straordinaria architettura, la storia culturale, la capacità di impatto sull’immaginario internazionale di ogni tempo sono conseguenze e non cause di questa eccezionalità, la cui origine costante è piuttosto nell’altissima qualità delle funzioni terziarie messe in campo in passato come capacità di intermediazione, strategia di fare flusso, essere crocevia obbligato di flussi. Flussi di merci, di capitali, di saperi speculativi e tecnologici, di produzione artistica, ad ogni scala: tra i continenti, le galassie dell’impero e del papato, le opposte sponde dei mari, le nazioni d’Europa, l’entroterra Veneto.
Immaginata, cioè soggettiva e indimostrabile, è invece l’autoreferenzialità che oggi declina, l’eccezionalità come prospettiva di una rendita senza ulteriori investimenti e a tempo indefinito, per la cui riproduzione occorre soltanto conservare (sia pure restaurando e manutenendo meglio di quanto ora non si faccia, e magari aggiornando l’offerta museale ed espositiva) l’involucro fisico della città e dell’ambiente che la circonda. È autoreferenzialità immaginata perché nega la matrice dell’intermediazione dei flussi.

I flussi di Venezia sono ridotti ormai al movimento turistico, prodotto da un’istanza ripetitiva di consumo (di immagine, ma anche di pietre, e più ancora di senso) che non richiede intermediazione alta, non fa crocevia tra centri di produzione, ma si limita ad alimentare un’economia primitiva, di raccolta, senza possibilità di crescita oltre il grado di saturazione già raggiunto. Mentre, contro quanto generalmente si crede, soltanto il 30 per cento dei posti di lavoro nel centro storico veneziano ha direttamente o indirettamente a che fare con il turismo.

Paradossalmente, e inevitabilmente, l’autoreferenzialità fraintesa porta a concepire il ripiano dei costi sociali della monocultura turistica (invivibilità, distruzione delle attività economiche alternative, patologie dell’incremento dei prezzi, disaffezione ed esodo della popolazione) in termini di assistenzialismo. Quell’assistenzialismo inizialmente dissimulato nell’alto profilo degli appelli internazionali per salvare Venezia, che in seguito ha trova forma esplicita nelle leggi speciali, e che fatalmente dell’autoreferenzialità vera comporta la distruzione, facendo dipendere la sussistenza della città da volontà esterne, eterodirette, e rassegnandosi alla perdita della capacità di iniziativa e di un bilancio economico attivo. Si vedano i danni che l’assistenzialismo ha prodotto nel Mezzogiorno italiano, dove la distribuzione di sollievi effimeri, a costi altissimi per la collettività nazionale, ha diffusamente avuto l’effetto di deprimere la vitalità e lo spirito di impresa locali.

L’autoreferenzialità immaginata è pericolosa, perché sterilizza lo stato di allarme, diventa consolatoria, condanna la città al fatale proseguimento di un declino che numero chiuso”, difese dall’acqua alta, restauri, edilizia popolare ed altre contromisure a piccola scala non basteranno ad arginare.