Turismo domani: la sfida degli standard

L’ospitalità tra “spontaneismo” e “industria”

Standardizzare non è omologare; standardizzare non è uniformare; standardizzare non è appiattire. I tre grandi “misunderstanding” della standardizzazione sono tutti qui.

Standardizzare è il progetto concreto della realizzazione più compiuta dello spirito imprenditoriale e la via maestra attraverso cui si costruisce un’azienda, o un sistema economico, anche nel turismo.

Brutta la parola, standard, che implica qualcosa di inanimato, freddo, lontano e senza anima; ma a pensarci bene non esiste nessun comparto industriale, senza che lo sviluppo sia stato raggiunto senza una qualche forma di standardizzazione.

Ma il senso vero del termine “standard” è quello di valore di soglia minimo sotto il quale non bisognerebbe fare offerta turistica e va da sé che si tratta non di un livello di soglia astratto, bensì quel livello medio richiesto dalla popolazione dei consumatori-turisti.

Il problema dell’accettazione dello standard, prima ancora come concetto e poi come realizzazione pratica, ha a che fare, in qualche modo, con l’immaginario turistico, più di quello di coloro che discutono nei convegni che di quello dei turisti veri.

Il ragionamento di chi si oppone alla politica degli standard è semplice: il turismo è la realizzazione materiale di un’aspirazione innata nell’uomo, quella della ospitalità. Essere ospitali è una connotazione importante del vivere sociale (e chi potrebbe negarlo?). E passaggio successivo è quello della autenticità: chi è ospitale esprime questa sua dote secondo la forma che gli è più propria, perciò più naturale, più autentica. Qualunque indirizzo, governo o formalizzazione che sia di questa dote non farebbe che diminuire proprio il senso della sua autenticità. In breve lo standard ucciderebbe prima l’autenticità, poi la spontaneità e dunque il senso naturale dell’ospitalità.

Questo ragionamento sarebbe perfetto solo che si mantenesse nella sfera privata e non fosse allargato a quella del “business”, dove invece, com’è noto, c’è la “intermediazione” del denaro tra chi offre e chi riceve ospitalità; connotazione che riporta tutto il discorso su un piano assai diverso.

C’è di più: il discorso sugli standard, la sua affermazione non annulla alcunché della attitudine verso l’ospitare, ma a guardar bene ne esalta, proprio perché le razionalizza, le connotazioni più importanti.

La contrapposizione tra standard e autenticità è del tutto falsa; come sarebbe falso mettere in contrapposizione la storia dell’arte italiana con il “designer” italiano; c’è senz’altro un filo rosso che collega la sensibilità a ospitare alla costruzione di una moderna industria dell’ospitalità; ma quest’ultima non crescerebbe mai se quella propensione non fosse canalizzata, sistematizzata e, per l’appunto, standardizzata.

Il punto vero di questa discussione è piuttosto di tipo macroeconomico: come l’offerta turistica italiana (e in specifico quella veneziana) possono riuscire a mantenere e sviluppare la propria capacità competitiva. Dire che la risposta sta nello spontaneismo è come, dire che tutto va bene e nulla c’è da fare. E’ sicuro che se senza una propensione all’empatia, senza un senso profondo dell’ospitalità diffuso in ogni operatore del turismo, qualunque costruzione foss’anche sistematica non reggerebbe, ma ci sono questioni che ineriscono al lato imprenditoriale e macroeconomico di questa discussione.’

Qualunque settore economico è cresciuto sugli standard, certo una volta che macrosocialmente si supera un livello di soglia, anzi i livelli di soglia, perché si parla sempre di una pluralità e non di un solo standard, vi è sempre uno spazio libero per chi voglia stare sopra o accanto agli standard: non è certo la fine della creatività imprenditoriale, semmai una sua “conditio sine qua noi’.

Senza gli standard è impossibile costruire una grande aziende, sia questo in senso micro sia anche in senso macro.

L’industria produttrice dei beni di consumo, ma oggi anche quella dei servizi non avrebbe alcuna possibilità di affermazione senza poggiare su una qualche forma di standardizzazione: poi si discuterà dove finisce lo standard e dove comincia la personalizzazione dei prodotti, ma senza una “proceduralizzazione”, ad esempio, del processo produttivo o dell’erogazione dei servizi la parola stessa di “industria” sarebbe fuori luogo.

Il turismo italiano, come gran parte degli altri settori, persino dell’industria che produce beni materiali, è cresciuto sullo spontaneismo; ed è stato un bene perché ha permesso che si sviluppassero tutte le doti policentriche e di creatività di cui si poteva disporre. Oggi però registriamo che le posizioni del sistema italiano di offerta turistica sul piano internazionale hanno una posizione marginale, in termini di dimensioni aziendali, di concentrazione imprenditoriale, di internazionalizzazione, se si vuole brutalmente in termini di potere.

Vediamo allora l’assenza di standard o la sua presenza come incide nel panorama dell’offerta turistica internazionale in due comparti fondamentali: il settore alberghiero e quello aziendale, o se si vuole della distribuzione del prodotto turistico organizzato.